Possiamo tradurre pinkwashing come “nascondere sotto uno strato di rosa“.
L’origine di questo termine deriva dall’unione tra i vocaboli pink (rosa) e whitewashing (imbiancare, coprire qualcosa con il bianco).
A coniarlo è stata la Breast Cancer Association nell’ambito del progetto “Think Before You Pink” lanciato nel 2002.
L’obiettivo era quello di rispondere alla crescente tendenza da parte delle aziende statunitensi, in particolare quelle di cosmetici, di lanciare sul mercato prodotti contrassegnati dal nastro rosa e venduti con la promessa di sensibilizzare o raccogliere fondi per la ricerca contro il tumore al seno.
Ma in realtà, camuffati da alleati del benessere femminile, gli stessi brand proponevano prodotti composti da sostanze correlate al rischio di insorgenza del cancro.
Un vero “specchietto rosa” per le allodole (…donne) con l’unico scopo di generare profitto mercificando a tutti gli effetti la malattia.
Le aziende che fanno pinkwashing sono moltissime!
Anche se non è detto che l’intento sia quello di lucrare sulla salute o sulla possibilità di inclusione delle donne, rimane comunque molto facile, quanto pericoloso, cadere nella rete del pinkwashing inconsapevole.
In che senso?
Con la pratica del pinkwashing le aziende legano il proprio nome alla solidarietà e alla tutela nei confronti delle donne e delle loro rivendicazioni.
Laddove però questa forma di vicinanza non corrisponde ad un reale e concreto impegno da parte dell’azienda, la promessa iniziale si trasforma in ipocrisia.
L’esempio più intuitivo, ma non per questo meno grave, è il cosiddetto commodity feminism: l’appropriazione di slogan inclusivi e validi dal punto di vista delle donne e del femminismo, a cui però non viene accompagnata un’azione concreta e un impegno effettivo.
Ad esempio, usare etichette che combattano gli stereotipi è in linea con le rivendicazioni attuali della nostra società, ma si rivela del tutto incoerente se finiscono per rimanere, appunto, solo etichette.
Per questo, anche se inconsapevole il pinkwashing è sempre nocivo ed è tale per tutte le parti coinvolte.
In primo luogo lo è per le donne, che vedono i brand speculare sulle proprie cause invece di ricevere un reale supporto.
Ma lo è anche per le aziende stesse, che perdono di credibilità e peggiorano la propria reputazione. Un rischio che non vale la pena assumersi…
Sarebbe quindi molto più corretto rimanere fuori da cause etiche e sociali non realmente sentite, piuttosto che abbracciarle in modo superficiale al solo scopo di migliorare la propria fama.
Tutto ciò che ci circonda può essere travolto da un’ondata rosa, ma anche di verde (greenwashing) o di tutti i colori dell’arcobaleno (rainbow washing).
I prodotti da posizionare sul mercato, le pubblicità, le immagini e i valori delle aziende e persino interi Paesi. Tra le righe di un messaggio egualitario si può leggere di tutto!
Volendo vedere il lato positivo, per fortuna il pinkwashing ha vita breve. Dal momento in cui un’azienda si mette su questo binario, ne imbocca uno parallelo di analisi del rapporto tra il brand e i temi femministi.
Si sa, il rosa non è un colore molto coprente e questo rende più semplice smascherare i tentativi di mercificazione dei temi di lotta sociale che per le donne invece, sono davvero importanti.
Interrompere il cerchio è semplice: basta fermarsi a riflettere.
Prima di comprare soffermiamoci un attimo in più e proviamo a mettere in discussione la logica dell’acquisto impulsivo tanto cara al pinkwashing.
Poniamoci le poche, semplici ma giuste domande prendendo come spunto quelle all’interno delle linee guida dalla Breast Cancer Association, che continua tutt’oggi a lottare per diffondere consapevolezza e rispetto sull’argomento.
L’azienda sta facendo qualcosa di concreto per aiutare e supportare le donne?
Per grattare via lo strato di rosa, basta pensare. E, solo allora, consapevolmente, decidere.